venerdì 20 ottobre 2017

Social bus

Ogni giorno, andando alla fermata riconosco le facce dei passeggeri abituali, quelli che  alla stessa ora condividono con me il viaggio verso casa o verso l'università.
Ogni giorno, noto sempre più particolarità nelle persone, non potendo fare altro che osservare, immagino le vite di ciascuno di loro e mi faccio un'idea di chi siano e di dove stiano andando.
Ogni giorno, penso di conoscere un po' di più il signore anziano seduto nei posti da 4 in fondo al 97 che sonnecchia dietro il vetro dei suoi occhiali e che puntualmente scende alla sua fermata con un movimento agilissimo per la sua età.
Ogni giorno penso di conoscere meglio l'autista del mio prontobus 436, che mi racconta della sua vita lasciata a cuba, delle sue figlie e dei problemi della società.
Ogni giorno mi fermo a pensare a un autobus sociale, se esistono le social street perchè non potrebbe esistere un social bus pieno di gente con cui poter parlare e condividere emozioni e pensieri?
In autobus gli sguardi delle persone non sono mai felici, se ci si guarda davvero intorno si vedono solo sopracciglia contratte, labbra strette, sguardi nel vuoto, occhi illuminati dagli schermi dei cellulari e orecchie tappate da auricolari. Mi sono sempre chiesta cosa succederebbe se invece di starsene in silenzio stretti nel proprio posto si iniziasse a parlare con il vicino. Siamo animali sociali e questo è indiscutibile, allora perchè quando abbiamo davvero l'occasione di socializzare ci chiudiamo nei nostri pensieri e delimitiamo un muro tra noi e l'altro? Non sto pensando a chiacchierate sui propri problemi e fatti personali, mi riferisco a chiacchierate su qualsiasi argomento; dal tempo alla musica. Perchè se siamo abitanti del mondo non possiamo permetterci di far sapere agli altri che esistiamo? Ci limitamo a stare nell'ombra, a tirare su il cappuccio della felpa e distogliere lo sguardo, ma questo quanto ci costa?

Dutch Nazari - Proemio
"In senso lato la vita è una trama condita di intrecci banali
Con scenografie artificiali che fanno da sfondo a dialoghi superficiali
Tra luoghi comuni volgari e storie di comuni mortali
Che vivono come idolatri, però isolati
Come i comuni montani
Come pianeti distanti, tanto inutili quanto importanti
Tanto umili quanto arroganti a seconda di chi hanno davanti..."

sabato 7 ottobre 2017

Sono in piedi

Martedì mattina, sono sul mio secondo autobus della giornata. Sono già le 9 di mattina e sono in ritardo per la lezione di psicologia clinica. L'autobus era in ritardo di 20 minuti e per questo è pieno di gente. Sono in piedi. Si alza una signora con la faccia già stanca, forse per essersi dovuta alzare presto e forse anche stanca di tutta quella gente che ti sta appiccicata. Dovendo aspettare ancora 20 minuti prima di scendere e essendo già stata in piedi in equilibrio per altrettanto tempo, guardo il posto libero che è stato lasciato e che stranamente non è stato assaltato. Nel posto a fianco è seduto un signore, penso abbia 40 anni. Ha la faccia imbronciata e quasi rabbiosa che mi spaventa un pò, ma d'altra parte è la stessa faccia che credo di avere addosso anche io stamattina. Decido di non sedermi e mi sento in colpa per questo. Vorrei poter dire che non mi sarei seduta comunque ma in cuor mio lo so che il vero motivo è che quel signore sembra essere pakistano, indiano, o comunque di un posto molto lontano. Mi rendo conto che forse non sono stata l'unica a fare questo tipo ragionamento. Alla fermata successiva sale una signora musulmana con un bambino che avrà avuto 5 anni. Il bimbo si siede di fianco a quel signore che per me avrà sempre il volto del mio pregiudizio d'ora in poi. Lui si gira a guardarlo sfoggiando un sorriso pieno di affetto e io piano piano inizio a sentire sempre più forte il senso di colpa per essermi fermata anche solo un secondo a pensare se sedermi o meno. 
Il giorno prima durante la lezione di pedagogia interculturale si era parlato proprio della grande maggioranza di popolazione straniera sull'autobus. Avevo ascoltato e compreso ragionamenti sul pregiudizio, sull'importanza di non giudicare nessuno solo in base a stereotipi della nostra società, ma adesso che ero chiamata all'azione avevo fallito. Mille pensieri si accavallano nella mia mente. Se quell'uomo fosse stato davvero una "brutta" persona avrebbe sorriso a quel bambino? Se mi fossi seduta avrebbe  fatto davvero qualcosa che mi avrebbe messo a disagio? ma soprattutto: perché dovrei avere paura a sedermi di fianco a chiunque sull'autobus? Come sono arrivata a questo punto? 
Con che coraggio oggi parteciperò alla lezione di pedagogia interculturale? Quasi ogni giorno mi capita di fare questo ragionamento e anche se mi riprometto di cambiare, di farlo, di sedermi c'è sempre qualcosa che mi blocca, che mi spaventa. Penso sempre che il giorno in cui smetterò di avere paura e riuscirò a sedermi, o a passare in mezzo a un gruppo di ragazzi stranieri senza avere paura di incrociare i loro sguardi mi succederà qualcosa di brutto. Questo è il momento in cui capisco che in realtà la mia paura è quella del modo in cui gli altri possono interpretare atteggiamenti che a me paiono normali. Per questo sono contenta ogni giorno di andare a lezione per imparare a conoscere, a conoscerli, a capire quale sia il modo giusto per fare le cose e odio dover prendere 4 autobus al giorno per andare e tornare, ma mi rendo conto che è proprio dal viaggio che inizia la lezione.